Il Bitest: quando farlo, come si esegue e risultati
Il Bitest è il più importante metodo non invasivo di screening del I° trimestre e ha la finalità di calcolare il rischio che il feto sia affetto dalle più comuni anomalie cromosomiche.
Il Bitest
Si tratta di un esame combinato, in cui il rischio viene calcolato sulla base:
- delle caratteristiche materne di base;
- del dosaggio di due ormoni tipici della gravidanza: free β-hCG e PAPP-A;
- dei dati derivanti dall’ecografia eseguita tra l’11° e la 13° settimana di gestazione (duotest).
Il Bi-test prevede due passaggi:
- l’ecografia per la valutazione dell’anatomia fetale, della translucenza nucale e di altri “marcatori” di eventuali anomalie;
- un prelievo ematico per il dosaggio della free β-hCG e PAPP-A.
Il Bitest non provoca danni né al feto né alla madre: è indolore e ha una durata media compresa tra i 20 e i 40 minuti.
Quando effettuata per via transvaginale, l’ecografia per la translucenza nucale può provare leggeri fastidi, comunque sopportabili.
L’ecografia per via transvaginale viene, ad ogni modo, effettuata solo quando l’esame per via transaddominale presenti dei limiti come nei casi di pazienti obese, in cui la corretta visualizzazione del feto viene ostacolata dall’adipe in eccesso o di feti in posizione particolarmente sfavorevole.
Translucenza nucale e bitest
Uno dei parametri valutati durante l’ecografia è la translucenza nucale (NT), ovvero lo spazio dietro la nuca del feto: tale parametro è molto importante nella valutazione del rischio globale.
Il bitest permette dunque sia di stimare il rischio che il bambino sia affetto da trisomia:
- 21: Sindrome di Down;
- 18: Sindrome di Edwards;
- 13: Sindrome di Patau,
sia di effettuare una valutazione dell’anatomia fetale precoce attraverso l’esecuzione dell’ecografia ad epoca gestazionale adeguata.
L’ecografia si effettua con gli ultrasuoni, impercettibili all'orecchio umano e assolutamente innocui per il feto e per la madre.
Tra le 10 e le 14 settimane tutti i feti presentano un accumulo di fluido nella zona dietro la nuca, che poi tende a riassorbirsi dopo la 14esima settimana nei feti euploidi, ovvero con un patrimonio genetico “normale”.
Lo spessore di questo accumulo di fluido, chiamato translucenza nucale, dipende dall’epoca gestazionale ed è direttamente correlato con l’aumento del rischio di patologie genetiche del feto.
Il valore della translucenza nucale infatti è aumentato in presenza di alcune anomalie cromosomiche: per tale motivo in presenza di valori definiti “patologici” della translucenza nucale è mandatorio offrire alla paziente la possibilità di eseguire un test invasivo:
- villocentesi;
- amniocentesi.
È importante sottolineare che il bitest è un test di screening e non diagnostico ovvero definisce delle classi di rischio, basso e alto rischio, con una sensibilità molto elevata, ma non consente di fornire una vera e propria diagnosi.
Quando il bitest risulta a basso rischio significa che quel feto ha una possibilità molto bassa di avere un’anomalia cromosomica.
Allo stesso modo quando il bitest risulta ad alto rischio esprime una possibilità aumentata che quel feto sia affetto da una patologia genetica, ma non si tratta di una diagnosi certa.
Il prelievo di sangue materno (duotest)
La translucenza nucale da sola è indicativa di alto rischio solo ed esclusivamente in presenza di valori particolarmente elevati.
In tutti gli altri casi, ovvero nella maggior parte delle gravidanze, l’informazione derivante dall’ecografia deve essere combinata alla valutazione tramite prelievo ematico della gonadotropina corionical, β-hCG, un ormone prodotto dall’embrione e della PAPP-A, proteina plasmatica A associata alla gravidanza.
I risultati del bitest
In alcune patologie, come ad esempio nella sindrome di Down, è possibile avere:
- una translucenza nucale normale o solo lievemente aumentata;
- β-hCG elevata;
- PAPP-A francamente ridotta.
In questi casi il calcolo del rischio combinato risulterà in un alto rischio anche se la translucenza è normale.
Per tale motivo, nel bitest in gravidanza, è molto importante combinare i dati ecografici e quelli ormonali al fine di ottenere un profilo di rischio affidabile, con una percentuale di accuratezza che arriva fino al 96% per la trisomia 21.
Nei casi risultanti ad alto rischio alla paziente viene offerta la possibilità di eseguire una diagnosi prenatale invasiva tramite villocentesi o amniocentesi.